La Corte di Cassazione ha recentemente mutato l’orientamento generale riconoscendo l’idoneità dell’annullabilità del verbale di conciliazione laddove il lavoratore lamenti di essere stato tratto in inganno a causa della condotta posta in essere dai datori di lavoro. Si pensi, ad esempio, alle sempre più frequenti ipotesi in cui si dichiara in esubero la posizione del dipendente, provvedendo di conseguenza al licenziamento, per poi successivamente affidare l’incarico ad un neoassunto.
La possibilità di procedere all’annullamento della conciliazione in sede sindacale è oggi legata alla posizione del lavoratore che lamenti di essere stato raggirato a causa della condotta posta in essere dai suoi superiori la quale, articolandosi nella forma di dolo omissivo in danno al dipendente, fa sorgere un’ipotesi di responsabilità a carico degli stessi.Una scelta in tal senso incide ovviamente sulle prassi di gestione dei licenziamenti collettivi, da sempre improntati a accordi che, prevedendo “buone uscite”, limitano la volontà dei lavoratori di impugnare. Nel caso di specie giunto alla Corte di Cassazione, il dipendente lamentava la falsità delle dichiarazioni della società per cui lavorava, la quale aveva motivato il suo licenziamento alla luce di un esubero. A seguito di accertamenti si era infatti scoperto che la posizione rivestita dal soggetto proponente non rientrava tra quelle dichiarate eccedenti e di conseguenza si imputava un’azione dolosa a capo del datore di lavoro.
La Corte d’Appello investita della questione rigettava con sentenza di primo grado il ricorso, sostenendo la mancanza di prove in ordine al raggiro lamentato dal lavoratore al momento della firma dell’accordo. Per il giudice di merito, inoltre, nel caso in questione non era rilevabile l’errore incolpevole del dipendente in virtù della mancata opposizione alla mobilità e della chiarezza espositiva della stessa.
La Corte di Cassazione Sezione Lavoro ,invece, ha assunto un punto di vista differente in virtù anche dell’accertata falsità delle dichiarazioni espresse dalla Società in ordine alla posizione lavorativa del ricorrente, con sentenza n. 8260 del 30 marzo 2017, laddove si è impegnata a chiarire se il silenzio malizioso del datore di lavoro in ordine a situazioni di interesse per il lavoratore possa costituire causa di annullamento del verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale. Nella sentenza n. 8260 del 2017, infatti, la Corte ha ritenuto legittimo l’accoglimento del ricorso presentato sottolineando come, nel precedente giudizio, la Corte di appello aveva compiuto un errore di diritto non considerando che la condotta realizzata dalla società aveva effettivamente realizzato un raggiro a carico del lavoratore.
In particolar modo, nella pronuncia in esame si evidenzia come all’interno di un contratto di lavoro, se l’inerzia posta in essere da una delle parti è riconducibile a un comportamento preordinato con astuzia e con il chiaro intento persecutorio, tale da determinare nell’altra parte un errore, si configura senza alcun dubbio l’ipotesi di dolo omissivo così configurata dall’articolo 1439 c.c.
La Corte di Cassazione ha dunque accolto il ricorso ed ha affermato i seguenti principi:
– una condotta di silenzio malizioso è idonea ad integrare raggiro. Infatti, un tale silenzio, serbato su circostanze rilevanti ai fini della valutazione delle reciproche prestazioni da parte di colui che abbia il dovere di farle conoscere, costituisce elemento di raggiro, idoneo ad influire sulla volontà negoziale del soggetto passivo;
– nel contratto di lavoro, integrano gli estremi del dolo omissivo, rilevante ai sensi dell’art. 1439 c.c., il silenzio serbato da una delle parti in ordine a situazioni di interesse della controparte e la reticenza, qualora l’inerzia della parte si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno perseguito, determinando l’errore del soggetto tratto in inganno;
– in tema di dolo quale causa di annullamento del contratto, nelle ipotesi di dolo tanto commissivo quanto omissivo, gli artifici o i raggiri, così come la reticenza o il silenzio, devono essere valutati in relazione alle particolari circostanze di fatto e alle qualità e condizioni soggettive dell’altra parte, onde stabilirne l’idoneità a sorprendere una persona di normale diligenza, non potendo l’affidamento ricevere tutela giuridica se fondato sulla negligenza.
Nell’ipotesi agli atti, la società aveva effettivamente agito con dolo dal momento che, nella lettera di apertura alla procedura di mobilità aveva provveduto ad inserire il lavoratore ricorrente tra i soggetti eccedenti, ma in un ristretto arco temporale aveva provveduto ad assumere un nuovo dipendente per ricoprire le medesime mansioni. A tal proposito la Corte di Cassazione evidenzia come anche il “silenzio malizioso” sia un atteggiamento idoneo a configurare l’ipotesi di raggiro. Tuttavia è necessario sottolineare come funzionale alla dichiarazione di annullabilità della conciliazione sia un accertamento in concreto, caso per caso, che tenga conto anche della condotta posta in essere dal ricorrente. Laddove, infatti, il lavoratore abbia assunto un comportamento negligente non potrà ottenere una tutela giuridica. Nella pronuncia suesposta, riscontratasi invece l’idoneità della condotta del dipendente improntata ai canoni di normale diligenza, si è provveduto a dichiarare valido il ricorso presentato. Pertanto spetta al giudice di rinvio valutare la possibilità di annullare il verbale di conciliazione alla luce di verifiche riguardanti la condotta dolosa o meno della società nonché a valutazioni in ordine alle spese.
Ulteriore e più recente giurisprudenza in merito a quanto sopra esposto si è creata con la CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 aprile 2019, n. 9006, con la quale riferendosi ad una conciliazione in sede sindacale (ma il discorso è da considerarsi valido anche per un accordo intervenuto ex art. 410 cpc), ha affermato che se il rappresentante dei lavoratori, leggendo il verbale, illustra i diritti del lavoratore e ciò a cui lo stesso sta rinunciando, la conciliazione risulta valida ed il lavoratore non può impugnarla per violenza morale, a nulla rilevando la sproporzione tra le concessioni avvenute tra le parti. La Suprema Corte ribadisce dunque , con questa decisione, un elemento essenziale: la piena consapevolezza del lavoratore di ciò che firma.
Autore: Avv. p. Schisani Vincenzo