ARTICOLO

LA CASSAZIONE CONFERMA LA LEGITTIMITÀ DEL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE CHE OFFENDE IL PROPRIO DATORE SU FACEBOOK

di Pasquariello & Partners

Scritto da Francesco Pasquariello

7 Febbraio 2022

LA CASSAZIONE CONFERMA LA LEGITTIMITÀ DEL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE CHE OFFENDE IL PROPRIO DATORE SU FACEBOOK
Il lavoratore che insulta i propri responsabili sui social network, nel caso di specie Facebook, incorre nel licenziamento per giusta causa: lo stabilisce la Cassazione rigettando il ricorso di un ex dipendente TIM. Con sentenza n. 27939 del 13 ottobre 2021 (testo integrale in calce) la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Roma, che nel 2018 aveva respinto il ricorso di un ex dipendente TIM contro il licenziamento, intimatogli dalla compagnia telefonica e successivamente disposto dal Giudice di primo grado.

                                   REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –
Dott. BALESTRIERI Federico –
Consigliere – Dott. PATTI Adriano Piergiovanni –
rel. Consigliere – Dott. PAGETTA Antonella –
Consigliere – Dott. CINQUE Guglielmo –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 4664-2019 proposto da:
V.R., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 209, presso lo studio dell’avvocato LUCA SILVESTRI, rappresentato e difeso dall’avvocato ERNESTO MARIA CIRILLO;
– ricorrente –
Contro
TELECOM ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE TRE MADONNE 8, presso lo studio degli avvocati MAURIZIO MARAZZA, MARCO MARAZZA, DOMENICO DE FEO, che la rappresentano e difendono;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4530/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 27/11/2018 R.G.N. 2693/2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/06/2021 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI; il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’ STEFANO; visto il D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte. Svolgimento del processo 1. Con sentenza del 27 novembre 2018, la Corte d’appello di Roma rigettava il reclamo di V.R. avverso la sentenza di primo grado, di reiezione, in esito a rito Fornero, della sua impugnazione del licenziamento, per giusta causa “ai sensi dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 48, lett. 8 del vigente CCNL”, intimatogli dalla datrice Telecom Italia s.p.a. il 23 novembre 2016, così come già disposto dallo stesso Tribunale con ordinanza, tempestivamente opposta dal lavoratore, a norma della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 51. 2. In esito a critico e argomentato scrutinio delle risultanze documentali, la Corte territoriale ribadiva il contenuto gravemente offensivo e sprezzante nei confronti delle sue dirette superiori e degli stessi vertici aziendali delle comunicazioni del lavoratore, a mezzo di tre e-mails e del messaggio sul suo profilo Facebook dell’ottobre 2016 (quest’ultimo legittimamente acquisibile, in quanto non assistito da segretezza per la sua conoscibilità anche da terzi), non disconosciute, integranti insubordinazione grave, a norma della previsione contrattuale collettiva e comunque giusta causa di licenziamento, per il loro carattere plurioffensivo e tale da precludere la proseguibilità del rapporto, per l’elisione del legame di fiducia tra le parti, anche considerato il ruolo aziendale del predetto (account manager, per la gestione della comunicazione pubblicitaria nazionale ad uso locale: insegne della grande distribuzione, eventi, promozione locale dei negozi TIM). 3. Con atto notificato il 24 gennaio 2019, il lavoratore ricorreva per cassazione con quattro motivi, cui la società resisteva con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. 4. Il P.G. rassegnava conclusioni scritte, a norma del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8bis inserito da L. conv. n. 176 del 2020, nel senso del rigetto del ricorso. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, quale il contesto lavorativo e l’evoluzione dei rapporti aziendali, comportanti la maturazione delle comunicazioni via mail e la pubblicazione del post sul profilo Facebook del lavoratore. 2. Esso è inammissibile. 3. In disparte l’insussistenza di un fatto storico omesso nell’esame, trattandosi piuttosto di una valutazione, insindacabile in quanto congruamente argomentata, con esame della circostanza (dal quart’ultimo al penultimo capoverso di pg. 7 della sentenza), esso non può neppure essere dedotto, a norma dell’art. 348ter c.p.c., comma 5, applicabile ratione temporis. Nel caso di specie, ricorre infatti l’ipotesi di “doppia conforme” e il lavoratore, per evitare l’inammissibilità del motivo dedotto ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non ha indicato le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 22 dicembre 2016, n. 26774; Cass. 6 agosto 2019, n. 20994). 4. Con il secondo, egli deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 15 Cost., art. 2697 c.c. anche in relazione all’art. 595 c.p., per illegittima acquisizione dalla società datrice dei posts presenti sulla pagina Facebook del lavoratore, in quanto destinata alla comunicazione esclusiva con i propri “amici” e pertanto riservata, espressiva di una modalità incompatibile con la denigrazione o la diffamazione erroneamente ritenuta, neppure essa avendone dimostrato la diffusione presso terzi: con la conseguente assenza di prova di riferimenti denigratori diretti anche alla società. 5. Esso è infondato. 6. Premessa l’esigenza di tutela della libertà e segretezza dei messaggi scambiati in una chat privata, in quanto diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, pertanto da considerare come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile (Cass. 10 settembre 2018, n. 21965: nella specie, conversazione in chat su Facebook composta unicamente da iscritti ad uno stesso sindacato), nella fattispecie in esame non sussiste una tale esigenza di protezione (e della conseguente illegittimità dell’utilizzazione in funzione probatoria) di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro diffuso su Facebook. Il mezzo utilizzato (pubblicazione dei post sul profilo personale del detto social così secondo il Tribunale, come riportato al terz’ultimo capoverso di pg. 2 e al terz’ultimo di pg. 5 della sentenza impugnata) è, infatti, idoneo (secondo l’accertamento della Corte territoriale, anche recependo dal provvedimento del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 13 giugno 2013 il supporto tecnico di comprensione dell’articolata modulazione dei messaggi su Facebook e della diversa fruibilità esterna a seconda di essa: all’ultimo capoverso di pg. 12 della sentenza), a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone (Cass. 27 aprile 2018, n. 10280, che ha ritenuto tale condotta integrare gli estremi della diffamazione e costituire giusta causa di recesso, siccome idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo). 7. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 48, lett. B), sub a) CCNL del settore delle telecomunicazioni, anche in relazione all’art. 47, lett. c) e degli artt. 2106, 2119, 2697 c.c., per l’erronea qualificazione della condotta del lavoratore alla stregua di grave insubordinazione ai superiori, tuttavia ricorrente in caso di inadempimento degli ordini e delle direttive datoriali o dei superiori gerarchici, anzichè come alterco, diverbio, aspra critica (come in particolare ritenuto da Cass. 5 maggio 2017, n. 11027), rientrante nell’ipotesi di inosservanza di “una condotta uniformata a principi di correttezza verso i colleghi” o al più di “lieve insubordinazione nei confronti dei superiori”, sanzionate in via conservativa. 8. Anch’esso è infondato. 9. E’ insegnamento di questa Corte che la nozione di insubordinazione debba essere intesa in senso ampio: sicchè, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, essa non può essere limitata al rifiuto del lavoratore di adempiere alle disposizioni dei superiori (e dunque ancorata, attraverso una lettura letterale, alla violazione dell’art. 2104 c.c., comma 2), ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale (Cass. 27 marzo 2017, n. 7795; Cass. 11 maggio 2016, n. 9635; Cass. 2 luglio 1987, n. 5804 e la più recente 19 aprile 2018, n. 9736, in riferimento ad un rapporto di lavoro pubblico). 9.1. Infatti, ciò che conta, ai fini di una corretta individuazione di una condotta di insubordinazione, nel contemperamento dell’interesse del datore di lavoro al regolare funzionamento dell’organizzazione produttiva con la pretesa del lavoratore alla corretta esecuzione del rapporto di lavoro, è il collegamento al sinallagma contrattuale: nel senso della rilevanza dei soli comportamenti suscettibili di incidere sull’esecuzione e sul regolare svolgimento della prestazione, come inserita nell’organizzazione aziendale, sotto il profilo dell’esattezza dell’adempimento (con riferimento al potere direttivo dell’imprenditore), nonchè dell’ordine e della disciplina, su cui si basa l’organizzazione complessiva dell’impresa, e dunque con riferimento al potere gerarchico e di disciplina (Cass. 13 settembre 2018, n. 22382). In particolare, la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l’esecuzione nel quadro dell’organizzazione aziendale (giurisprudenza consolidata fin da Cass. 2 luglio 1987, n. 5804, citata): sicchè, la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana riconosciute dall’art. 2 Cost., può essere di per sè suscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale, dal momento che l’efficienza di quest’ultima riposa sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi ed essa risente un indubbio pregiudizio allorchè il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli (Cass. 11 maggio 2016, n. 9635). Nè una tale nozione deve ritenersi smentita dal precedente di legittimità citato dal ricorrente, in riferimento all’operata distinzione tra “insubordinazione” e “alterco”, per la ritenuta inconferenza, nella peculiare fattispecie scrutinata (“episodio… avvenuto davanti alla macchinetta del caffè pochi minuti prima dell’inizio del turno… vale a dire nello stabilimento, ma non durante l’orario di lavoro”), del “rinvio invocato da parte ricorrente a Cass. n. 9635/16 che, in motivazione, ammette che l’insubordinazione possa altresì ravvisarsi nella critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti”: nel caso di specie, per essere il fatto avvenuto al di fuori dell’orario di lavoro, avendo il precedente invocato escluso l’estensione dei vincoli gerarchici tra le persone anche ad un contesto extralavorativo, nè “che ad essi debbano essere improntati tutti i rapporti fra loro” (Cass. 5 maggio 2017, n. 11027: così in motivazione, sub p.to 5.). 9.2. La Corte territoriale ha esattamente applicato i suenunciati principi di diritto (esplicitamente richiamati dal secondo all’ultimo capoverso di pg. 11 della sentenza), sulla base di un accertamento in fatto (in esito ad un attento scrutinio delle risultanze documentali: dal penultimo capoverso di pg. 9 al secondo di pg. 10 della sentenza) della ricorrenza nel caso di specie di una condotta di insubordinazione, congruamente argomentato (dal primo periodo al secondo capoverso di pg. 12 e dal terzo al penultimo di pg. 13 della sentenza), pertanto insindacabile in sede di legittimità. 10. Con il quarto, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 48 lett. B) del CCNL di categoria, in relazione agli artt. 2119, 2697 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 18 come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42 per il mancato accertamento dell’esistenza del grave nocumento morale o materiale arrecato dall’insubordinazione del lavoratore, nonostante la sua natura di elemento costitutivo della fattispecie sanzionata, erroneamente invece ritenuto dalla Corte territoriale “insito” nelle azioni compiute dal predetto, con la conseguente inestensibilità di una giusta causa di licenziamento, esclusa dalla previsione di una sanzione conservativa dell’autonomia collettiva. 11. Esso è infondato. 12. Appare evidente la superfluità, nel caso di specie, del denunciato mancato accertamento, una volta che la Corte capitolina abbia (correttamente) qualificato la condotta del lavoratore, in esito al superiore accertamento in fatto, alla stregua di “grave insubordinazione”, in quanto esplicitamente sanzionata (art. 48, lett. B), p.to 4, lett. a) dal CCNL di categoria applicabile ratione temporis (al terz’ultimo e penultim capoverso di pg. 10 della sentenza). Sicchè, neppure ricorre una violazione del principio, per il quale, in materia di licenziamenti disciplinari, nell’ipotesi in cui un comportamento del lavoratore, qualificato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia configurato dal contratto collettivo come infrazione disciplinare cui consegua una sanzione conservativa, il giudice non possa discostarsi da tale previsione (per la condizione di maggior favore fatta espressamente salva dalla L. n. 604 del 1966, art. 12), a meno che non accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva (Cass. 7 maggio 2015, n. 9223; Cass. 5 maggio 2017, n. 11027; Cass. 16 maggio 2020, n. 8621; Cass. 10 luglio 2020, n. 14811). 12.1. Ed infatti, la necessità di accertare la sussistenza del grave nocumento morale e materiale si pone qualora esso sia elemento integrante della fattispecie prevista dalle parti sociali come giusta causa di recesso (Cass. 28 settembre 2018, n. 23602), come nell’ipotesi sanzionata con il licenziamento senza preavviso in linea generale dall’art. 48, lett. B), p.to 3 (“In tale provvedimento incorre il lavoratore che provochi all’azienda grave nocumento morale o materiale… “) e in quella richiamata dal ricorrente, relativa ad una condotta non tipizzata, ma rientrante nella previsione generale per “comportamenti addebitati al lavoratore nelle lettere d’incolpazione… inserimento nel sito internet, nonchè nel profilo Facebook di un’impresa di ristorazione, dei numeri di telefono mobile e di fax assegnati al lavoratore stesso dalla datrice di lavoro attualmente contro ricorrente;… avere indicato la detta datrice di lavoro come cliente dell’impresa” (Cass. 13 ottobre 2015, n. 20545, in motivazione). 12.2. Ma la necessità di un tale accertamento non ricorre, quando l’elemento del “grave nocumento morale o materiale” sia già tipizzato dall’autonomia collettiva in alcune condotte (al p.to 4 della lettera B: “A titolo indicativo rientrano nelle infrazioni di cui sopra”: ossia generalmente indicate al citato p.to 3), in particolare alla lett. a) (“la grave insubordinazione ai superiori”), come appunto quella in questione. 13. Dalle superiori argomentazioni discende allora il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza e con raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il lavoratore alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto. Conclusione Così deciso in Roma, il 17 giugno 2021. Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2021

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